FINALMENTE EGITTO (5)

MEDINET HABU, QURNA E TOMBA DI RAMOSE

Il tempio funerario di Ramses III, meglio conosciuto col nome di Medinet Habu perché situato nell’omonima località, è di una bellezza incredibile. Qui si possono ammirare dipinti e bassorilievi che nonostante per secoli siano stati esposti all’aria aperta si sono perfettamente conservati. Non c’è un solo metro quadro di parete o colonna libero da decorazioni. Per questioni di spazio non posso pubblicare tutte le decine di foto che ho scattato all’interno di questa imponente struttura, ma vi assicuro che la visita di un giorno non basta.

Come ci si arriva? Semplice, quando, provenienti da Luxor, si sbarca sulla riva occidentale del Nilo, lo si trova percorrendo la strada che conduce ai colossi di Memnone, 700 metri dopo, dove c’è il ticket office per le tombe dei Nobili, si svolta a sinistra. Ancora 500 metri e si giunge davanti al “migdol”, l’ingresso del tempio costituito da un corpo di guardia fortificato e custodito da una statua di Sekhmet (la dea leonessa della guerra).

Il tempio somiglia molto al Ramesseum (quello di Ramses II) è circondato da un alto muro di cinta di circa 210 x 300 metri e contiene oltre 7000 m² di pareti decorate. Dal primo pilone si accede a un cortile, contornato su un lato da colossali colonne non scolpite e sull’altro da enormi statue di Ramses III in veste di Osiride. Il secondo pilone porta a un peristilio, con altre statue. Da qui una rampa, attraverso un portico colonnato, conduce al terzo pilone e da questo si entra nella grande sala ipostila che come quella del tempio di Karnak non ha più il tetto.

Oltre per le dimensioni, il tempio è importante per l’aspetto artistico, architettonico e per le iscrizioni raffiguranti le guerre con i Libici, Nubiani e Popoli del Mare, guerre vinte dall’esercito di Ramses III. Molte sono le storie che campeggiano sulle pareti interne ed esterne del tempio, molte, tranne una.

Sopravvissuto a molte campagne militari Ramses III fu vittima in patria di un omicidio. Esaminando la sua mummia infatti, gli scienziati forensi incuriositi dalla grande massa di bende che circondava il collo del faraone, hanno scoperto che la causa della morte fu un profondo taglio alla gola. Il mistero è stato risolto dal “Papiro della Congiura dell’harem”, conservato al Museo Egizio di Torino, grazie al quale si è potuta fare luce sul complotto che pose fine alla vita del faraone, durante una celebrazione a Medinet Habu. La congiura fu istigata da Tiye, una delle tre mogli, affinché suo figlio, il principe Pentawer, divenisse faraone mentre il successore designato era il principe Ramses IV.

Ma il complotto fu scoperto e nel grande processo che ne seguì molte personalità furono accusate del complotto. Primi fra tutti, Tiye e il principe Pentawer, poi Pebekkamen (il responsabile della dispensa del re), sei concubine, sette funzionari di Palazzo, due ispettori del Tesoro, due ufficiali dell’esercito, due scribi reali, il potente comandante dell’esercito in Nubia e un araldo. Non si sa con certezza se tutti gli accusati siano stati messi a morte; ad alcuni fu dato il permesso di suicidarsi per evitare il boia, altri, scagionati, preferirono morire per inedia. Stando ai documenti del processo, in totale furono 38 le persone che persero la vita. Le tombe destinate a Tiye e Pentawer, pronte da tempo, furono deturpate, spogliate e i loro nomi cancellati per precludere loro l’immortalità, sappiamo della loro esistenza solo grazie al papiro del processo. Alcune concubine dell’harem, sotto accusa, cercarono di sedurre i giudici, alcuni dei quali cedettero alle loro lusinghe, ma furono colti in flagrante e anche a questi magistrati spettò una pena severa: il taglio nel naso e delle orecchie. Solo uno degli indiziati, l’araldo, se la cavò con un rimprovero. Giustizia fu fatta e un millenario cold case risolto.

Anche la storia di Qurna è interessante e coinvolgente. Qurna è un villaggio abbandonato a circa 100 metri dal Tempio di Seti I. Situato sulla riva occidentale del fiume Nilo sorge abbarbicato al pendio della montagna tebana. Gli abitanti erano molto poveri e avevano costruito le loro case a ridosso delle tombe in modo tale da poterle depredare. Gli oggetti saccheggiati sarebbero stati venduti ai turisti e visitatori.

Per fermare questo deplorevole fenomeno il Dipartimento delle Antichità Egiziano decise di espropriare l’area e trasferire tutti in un nuovo insediamento chiamato New Qurna. Progettato dall’architetto Hassan Fathy, il nuovo villaggio fu costruito tra il 1946 e il 1952 in una zona ricca di acqua e vegetazione a metà strada tra i Colossi di Memnone ed el-Gezira sul Nilo. L’obiettivo era quello di realizzare edifici a basso costo e rispettosi dell’ambiente, dovevano avere le tipiche cupole e spessi muri di mattoni di fango che garantivano una ventilazione naturale donando fresco nella stagione calda e caldo nella stagione fredda. Purtroppo il progetto fallì perché la maggior parte degli abitanti rifiutò di trasferirsi nelle nuove case, scontenti dell’idea di essere spostati e quindi rinunciare ai loro profitti. Così l’ambizioso progetto di costruire con principi moderni utilizzando materiali e tecniche tradizionali non fu mai completato e gran parte delle case originali sono state sostituite da tristi blocchi di cemento. Nonostante l’intenzione dell’UNESCO di proteggere l’originale New Qurna, tutto quello che oggi resta dell’innovativo villaggio sono la moschea, il mercato e alcune case.

Proprio nella zona di Qurna ho visitato la TT55 (Theban Tomb 55), l’ultima dimora di Ramose, governatore di Tebe e visir durante i regni di Amenhotep III e Akhenaton nella XVIII dinastia egizia. La storia della tomba è affascinante perché è uno dei pochi monumenti risalenti al periodo di transizione tra le due diverse forme di culto religioso egizio (il tradizionale politeista e quello monoteista di Akhenaton).

I bellissimi dipinti e i bassorilievi mostrano le commoventi scene del funerale di Ramose.

Sono ancora visibili su alcune pareti le tracce e le bozze preparatorie degli artisti decoratori.

La tomba non fu mai terminata causa la prematura morte di Ramose.

Dulcis in fundo (ma non proprio dulcis) l’ultima storia. Pubblico alcune foto che testimoniano l’ottusa e sciocca abitudine di molti: quella di lasciare un segno o la firma del proprio passaggio. Come si vede non è un vizio solo dei writers dei giorni nostri, questi sfregi risalgono ai primi anni dell’Ottocento. Forse è comprensibile si dirà, erano altri tempi, le coscienze, l’educazione e il rispetto per i reperti antichi non erano quelli di oggi, basti solo pensare a quante mummie sono state distrutte per essere vendute a pezzi o addirittura macinate e ridotte in polvere per essere usate come medicamento magico contro la vecchiaia e l’impotenza. Forse… ma non per me, ieri come soprattutto oggi, l’unico risultato di queste azioni è quello di perpetuare la propria profonda stupidità.

Ma le storie non finiscono qui, nella prossima puntata:

Deir el Medina e le tombe dei Nobili.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto